Liv Arnesen al Polo Sud e ritorno

Valeria Fieramonte

 

Il biglietto da visita di Liv Arnesen ( qualifiche: educator, explorer, lecturer) ha come logo un orso e un pinguino in consultazione tra loro. Norvegese e cresciuta nel mito di Amundsen, ‘ come tutti i bambini norvegesi, del resto’, Liv è una donna che è stata capace di realizzare i suoi sogni. L’impresa che ha compiuto nel 1994 ha dello straordinario: arrivare al Polo Sud, da sola, con gli sci, trainando una slitta in fibra di vetro.

L’Antartico è un continente grande una volta e mezza l’Europa. Prima di lei c’era stata, nel 1909, l’epica gara tra Scott e Amundsen, che però non erano soli, ma avevano una squadra di uomini e cani da slitta ( Scott, inglese, anche qualche attrezzatura a motore che si ruppe subito). Si sa come andò: il norvegese Amundsen piantò la sua bandiera di vittoria al Polo Sud un mese prima dell’arrivo di Scott, non senza lasciare nella tenda nera contigua una lettera al rivale, in cui  lo pregava, in caso di morte sulla via del ritorno, di avvisare il suo Re che la vittoria spettava a lui.  Forse fu anche la depressione per la sconfitta, il non voler tornare se non vincitori, Scott e i suoi morirono assiderati e sfiniti sulla via del ritorno a soli 20km dal campo base. I loro corpi sono ancora là, nella tenda in cui si sono per sempre addormentati. Con tecnologie più evolute Liv ha voluto molti anni dopo ritentare l’impresa: questa volta da sola, scalando montagne e cercando di evitare i crepacci.

Ma ecco cosa dice Liv, che sono riuscita a intervistare al Festival della scienza di Genova: ’ quando avevo tre anni e mezzo mio padre mi portò a Oslo a vedere la casa di Amundsen e poi lessi il suo libro sulla spedizione antartica. Sognavo di imitarlo e dicevo a tutti che avevo un sogno: arrivare anch’io al Polo Sud. Ma mi guardavano come se fossi matta e decisi di tenere il sogno per me. In seguito la lettura di un libro sulla vita di Maria Curie, prima donna a diventare rettore alla Sorbona, mi diede coraggio. Nel ’94, quando feci la spedizione avevo 41 anni. Avevo sposato un vedovo con tre bambini e prima di partire ho dovuto aspettare che fossero abbastanza grandi. I patti erano chiari: al momento giusto doveva però lasciarmi tentare. All’epoca facevo l’insegnante. Come ho fatto a resistere da sola, per mesi, lungo tutto il percorso fino al Polo? Con l’immaginazione: immaginavo di sciare dentro gallerie d’arte moderna, invece che sui ghiacci, mi figuravo musiche e poesie, sciavo per dieci ore al giorno, allo stesso ritmo dell’universo.
Finalmente alla vigilia di Natale del ’94 ce l’ho fatta.

Quando si organizzano spedizioni di questo tipo  si pensa però anche al peggio: avrei potuto cadere in un crepaccio, lì non è che ci siano le insegne stradali, perdere la slitta, la tenda: scalare gli altopiani è stato duro.
Comunque all’arrivo al Polo Sud grande sorpresa: sono stata accolta da un uomo, con grande clamore e grandi feste! Che strano, era stato il mio insegnate di sci di fondo negli USA quando ero al liceo! Nessuno mi aveva detto niente!
Sono tornata con lui alla base e devo dire che sono stata a crogiolarmi nell’acqua calda della doccia per trenta minuti. Poi l’acqua è finita. Nella base antartica l’acqua è razionata e agli abitanti spetta una doccia di due minuti due volte la settimana, perciò mi hanno concesso un trattamento di favore. Il periodo trascorso alla base è stato fantastico. Il rientro in patria invece è stato un po’ così, mi aspettavo di essere ricevuta con fanfare e onori e invece niente. Il mio unico sponsor del resto era stato un italiano di Milano!

Poi ho continuato ad allenarmi. Nel ’96 ho tentato la scalata dell’Everest, ma ho dovuto ritirarmi dalla spedizione perché mi è venuto un edema cerebrale. Ero tornata da un anno in Norvegia, quando ricevetti una lettera da Ann Bankroft, un’americana che mi proponeva di tornare in antartico assieme a lei con un progetto ambizioso: attraversare tutto il continente antartico nel punto in cui è più stretto. Nel novembre del 2000 siamo così partite in due, questa volta con molti sponsor e anche collegamenti satellitari. Abbiamo percorso 3000 km in cento giorni ( l’estate antartica è molto breve), e usato oltre agli sci anche una sorta di vele, attraverso bufere ( pochissime: in antartico nevica raramente) e contando sul vento. Sciavamo per 14 ore al giorno. Quando fa molto freddo la neve crea attrito e sembra di sciare sulla colla. L’unico rumore che sentivamo era quello del sangue che ci scorreva nelle vene. Scoprimmo che dopo 50 giorni senza lavarsi si può dare ai propri capelli la forma che si desidera! ( nei momenti difficili è giusto aiutarsi con un po’ di humor.)

Comunque ce l’abbiamo fatta. L’anno dopo abbiamo ricevuto il libretto della NASA con i complimenti degli  astronauti per la nostra impresa! Anche la NASA era interessata alla spedizione; nei pianeti più vicini alla terra ci sono temperature simili a quella antartica: studiano le condizioni di vita in ambienti estremi in vista di una futura spedizione su Marte. Nel 2005-2007 sono stata invece al Polo Nord. Là è completamente diverso: molto più pericoloso, perché ci sono gli orsi polari e in più occorre avere una tuta stagna perché si può sempre finire in acqua. Nel bel mezzo della notte il ghiaccio si è aperto proprio sotto la nostra tenda e non è stata una bella esperienza‘.

Ora Liv ha un nuovo progetto: tornare in antartide con donne di diverse religioni e provenienze ( ma tutte esperte di ghiacci e di scalate) con il comune obiettivo di fare del mondo un posto migliore dove vivere. Hanno aderito russe, indiane, cinesi, neozelandesi, americane. Per l’Europa c’è Liv. Sentiremo ancora parlare di loro!

 

7- 11 - 2011